Work In Progress
non guardare!

I/000 — Prologo
[Un Ospite Ineccepibile]
Così vicina da sentire l'odore dell'olio e il sapore del metallo.
"Mi rovinerà il trucco?" si chiese Mirella.
Aveva passato quasi due ore a prepararsi per quel momento. Ciglia, ombretto, sopracciglia, capelli… aveva rotto due pettini per quanto si era pettinata minuziosamente. E poi la cipria, che le scivolava via dalle guance. Anche l'eyeliner non teneva per niente, e colava in un rivoletto scuro come una lacrima nera fatta di dolore puro.
Ma alla fine era riuscita a darsi un aspetto ammirevole: guance rosee, trucco presente ma non ostentato, e la sua pelle liscia, lucida, chiara, chiarissima!
Un vestito di tulle nero, con gonna corta al ginocchio a palloncino e una collana di perle bianche, à la Audrey Hepburn. Scarpe laccate con tacco basso, e orecchini a clip, perché quelli normali non poteva più indossarli.
D'altronde i suoi genitori glielo avevano insegnato. Sii sempre pronta, per ogni occasione. Sii sempre perfetta, per ogni occasione.
Ada, la sua bambola di porcellana, faceva bella presenza sulla consolle di fianco al divano, seduta, con le braccia leggermente aperte e con le dita delle manine bianche rilassate, in posa elegante e un po' aristocratica.
Tutto era perfetto per il ritorno di Emilio, come sempre.
Ecco perché era stata sorpresa nel vedere un'altra persona.
Insieme ad altri uomini.
Che erano entrati sfondando la porta.
E il primo adesso le stava puntando una pistola in faccia, così vicino da non vedere quasi nient'altro che la bocca da fuoco.
Che cosa volevano da lei?
Anche gli altri le stavano puntando addosso delle pistole e dei fucili mitragliatori.
«Non ti muovere! Non ti muovere!» aveva urlato uno di loro.
E Mirella non si era mossa, ancora seduta sul divano, mani in grembo, schiena dritta. Non era nemmeno riuscita a posare il libro sul cuscino. Che figura.
Per un attimo girò lo sguardo verso Ada, la sua bambola. Le sembrò che stesse sorridendo. Più del solito.
Tornò a guardare gli uomini di fronte a lei; erano cinque o sei. Due l'avevano aggirata e le puntavano le armi dai lati.
Mirella inclinò appena la testa. «Buonasera, signori» disse, sforzandosi di sorridere.
Ma la sentiva. Era una sensazione che conosceva bene, troppo bene. Che le era stata insegnata a casa, come la più preziosa delle educazioni.
La paura.
"Non mostrare la paura. Non mostrare nulla" si disse, restando immobile. Le riuscì molto meglio del solito. Come sempre fissò un punto nell'aria vuota della stanza.
"Sii ineccepibile. Perfetta. La perfezione non ha nulla da temere, e non prova paura."
«Ma quante cazzate dici!»
Una voce molto acuta.
«Ahahah!»
Una risata altrettanto acuta, come una registrazione riprodotta a velocità più alta.
Ada sorrideva ancora di più, le sopracciglia aggrottate, le palpebre socchiuse, come un predatore che ha puntato una preda facile.
Mirella guardò l'uomo di fronte a lei. Indossava una tenuta militare. Un corpetto pieno di tasche e taschini. Ed elmetto, passamontagna, occhiali protettivi.
Un buon padrone di casa dovrebbe essere ineccepibile, anche se l'ospite è armato?
«Confermo contatto con anomalia» disse uno degli uomini più indietro, «attendiamo procedure di contenimento.»
Mirella non poté trattenersi dallo sgranare lo sguardo, anche se le fece male. Lo notava adesso, il simbolo bianco sulla manica. I due cerchi concentrici, le frecce… Quel simbolo.
"Loro…!"
«Eh, sì, proprio quelli. Pensavi davvero di essertene liberata?»
Quel calore malsano che sale dallo stomaco verso il cuore che batte, come un geyser sottomarino. Li aveva riconosciuti. Erano quelli che l'avevano portata via di casa. Via dalla sua famiglia. Gli stessi che l'avevano rinchiusa. Che l'avevano tenuta prigioniera. Erano loro.
"Ma Emilio mi aveva assicurato che non…"
Inutile, erano lì, davanti a lei, per davvero.
Non voleva essere portata via. Non voleva di nuovo il sacchetto sulla testa. Le avrebbe rovinato di nuovo il makeup…
Ma si rese conto che non le importava niente del maquillage. Non voleva essere rimessa in quel furgoncino freddo. Non voleva essere ammanettata mani e piedi di nuovo. Non voleva finire in un'altra prigione.
Il libro le scivolò dalla mano liscia, cadendo dolcemente sul cuscino.
«Ferma! Ferma!» urlò l'uomo di fronte a lei, facendola trasalire.
«Signore, l'anomalia è ostile, ripeto l'anomalia è ostile» disse in un ricevitore vicino al colletto il militare dietro di lui. Mirella si irrigidì ancora di più, se possibile.
«Ci sta attaccando!»
«Ma… io… non…»
«Che hai combinato stavolta?»
«Non riusciamo ad attuare procedure di contenimento!»
«Sono seduta… non sto facendo…»
«Così accogli gli ospiti? Sei un fallimento.»
«Anomalia incontenibile, ripeto anomalia incontenibile.»
«No…! Io…»
«Ahahah!»
Bianco come la pelle di porcellana di Ada. No, ancora più bianco. Non avrebbe dovuto diventare tutto nero? Forse era la vicinanza…
E proprio come quella di una bambola, la sua di testa girò all'indietro come se il suo collo fosse fatto di stracci.
Questo, e il flash bianco. Mirella non ebbe ovviamente tempo di pensare ad altro quando il militare di fronte a lei le sparò in piena faccia.
I/001
[Porcellana]
«Mirella!»
Mirella trasalì. La matita le rotolò via dalla mano, ma si fermò nella valle tra le due pagine del libro di matematica. La ragazza sospirò mentalmente.
«Che stai facendo?»
«Sto studiando, mamma.»
Mirella sentì l'impulso di voltarsi verso la madre che era alle sue spalle, ma si trattenne. Puntò lo sguardo verso un punto del muro.
«E cosa stai studiando?»
«Matematica.»
«E italiano quando lo studi?»
«Appena finisco qui…»
«Non mi sembra che stai studiando abbastanza.»
Mirella si fermò per un istante, e il suo sguardo fuggì verso la pila di libri scolastici sulla scrivania, impilati ordinatamente, ma palesemente usati e con diversi fogli di appunti scritti in diversi colori che facevano capolino tra le pagine.
«Sto studiando tutti i giorni fino alle undici…»
«Potresti studiare fino a mezzanotte.»
«Ma perché? Ho…» Si fermò. Non voleva essere di nuovo paragonata a tutti gli altri.
«Che hai?» chiese la madre, addolcendo la voce.
"Il muro."
«Niente.»
«A me lo puoi dire.»
«No, niente.»
«Non dici le cose a tua madre?»
Mirella si morse il labbro. Rimase immobile per un attimo.
"Il muro, guardo il muro."
Prese a graffiarsi il dorso di una mano con l'altra.
«Oh, ma sei diventata sorda?»
Deglutì. «No…»
«Allora? Non dici le cose a tua madre?»
"Non rispondere, guarda il muro."
«Niente…»
"Ok."
«E che hai, eh?»
«Niente, allora… studio di più.»
"Ok. È ok. Non dire altro."
«Ah.»
"Il muro! Non respirare. Non muoverti."
Ma per quanto se lo ripetesse, il suo respiro si fece più affannoso, il torace che andava su e giù, il collo rigido come fosse diventato di marmo.
«Allora non studi, lo vedi?»
«Io…»
«LO VEDI?! Non vuoi fare NIENTE!»
«Ma…» rispose con un filo di voce.
«Mi stai rispondendo? MI STAI RISPONDENDO?!»
Mirella non ebbe tempo di dire nulla, di fare nulla, che il dolore la morse sulla guancia, feroce, affamato, diramando le sue radici spinose sotto l'occhio, dietro la nuca, lungo il collo.
«AH!» esclamò, cercando di soffocare l'urlo con una mano. Un altro colpo arrivò inatteso sulla tempia, doloroso tanto sul cranio quanto e più nel cuore.
«Rispondi a tua madre!»
Mirella cercò di proteggersi la testa, ma altri colpi arrivarono sulle spalle. Non sapeva cosa fosse. Il mattarello, uno zoccolo, non lo sapeva. Ma era chiaro che ce l'aveva già in mano quando era entrata.
«'STA MALEDUCATA…! RISPONDE…! ALLA MADRE…! SVERGOGNATA…! COME…! TI…! PERMETTI…!» urlava sua madre tra un colpo e l'altro, caricati in aria e affondati senza controllo, il rumore dei tappeti pesanti che vengono sbattuti.
Poi si fermò, ansimando. Mirella sentiva il bruciore degli impatti, ogni zona come se avesse un peso zigrinato poggiato sopra, le braccia strette intorno alla testa, inutili. Le palpebre chiuse, strette a cercare di arginare il pianto, inutili anche quelle.
Sentì la madre allontanarsi, e anche se non la vedeva la sentiva camminare sgraziata, spostando malamente il peso da una gamba all'altra. Arrivata sulla porta la sentì voltarsi per un attimo.
«Oggi studia fino a mezzanotte! E domani quando torni da scuola vai a fare la spesa e pulisci casa!»
Uscì dalla stanza, e Mirella la sentì che sbraitava.
«Maleducata! Non fa mai niente e risponde alla madre! Vedi i compagni suoi come sono educati! Stefania è tanto brava, aiuta sempre la madre! Ma tu guarda cosa mi costringi a fare! Se tu non fossi così sbagliata io non dovrei essere così dura…! Per il tuo bene lo faccio e tu mi ringrazi così…»
L'eco continuò per un po', finché la madre non si fu allontanata in un'altra ala della casa. Ma Mirella sapeva che stava continuando.
Con le palpebre socchiuse e tremanti osservò la pagella posata sull'altro lato della scrivania, allineata con i bordi, ancora come nuova. La madre l'aveva vista, ovviamente. L'aveva guardata come la cosa meno interessante del mondo, quasi a farle un favore.
"Ma perché?" stava per dire Mirella. "Ho tutti dieci…" Questo stava per dire.
«È colpa tua, cretina» si disse. Perché aveva guardato i libri? Perché si era distratta così? «Perché non hai guardato il muro?»
Una lacrima scese calda, corposa, la sconfitta che le carezzava il volto, graffiando la guancia che pulsava come ci fosse dentro un nido di vespe inferocite. Aveva qualche minuto, e lo sapeva. Si lasciò piangere. Poteva farlo, aveva qualche minuto.
L'importante era non fare rumore.
Si toccò la tempia, che batteva, batteva forte, come se qualcosa dovesse uscirne.
L'importante era non muoversi.
***
Lo zaino era pronto, tutti i libri per il giorno dopo sistemati con cura all'interno e in ordine di grandezza. Elegante ma semplice, scuro. Posato perfettamente ai piedi del comò, a metà della lunghezza. I libri che non servivano erano impilati sulla scrivania allo stesso modo.
Mirella guardò il cellulare. Era quasi l'una, ma non aveva sonno. C'erano quattro nuovi messaggi di Katia, ma non aveva voglia di leggerli. Né tantomeno di rispondere. Lo avrebbe fatto la mattina dopo nel bus, così Katia non se la sarebbe presa. Le avrebbe rifilato qualche scusa, come al solito. Una riunione di famiglia? O una festa a sorpresa? Sì, una festa a sorpresa.
Col dito arricciò una ciocca di capelli biondi con invidia. Nella sua camera tutto era a posto, tutto era ordinato, si era persino tirata le coperte a mezzo busto in maniera che fossero simmetriche. A parte Ada, che non era sulla sua mensola insieme alle altre sorelle, ma le giaceva di fianco.
Dai boccoli biondi della bambola passò a guardarsi una ciocca dei propri capelli color mogano. C'erano delle doppie punte.
«Perché fai così schifo?!» mormorò.
Si toccò la guancia con la punta del dito, lentamente. Le faceva ancora male.
«Perché fai così schifo?»
Perché il suo corpo non si comportava come doveva? Perché la sua testa era così sbagliata?
Mirella sapeva che era colpa sua. Era evidente d'altronde. Doveva impegnarsi di più. Eliminare l'imperfezione.
Guardò Ada. Aveva un'espressione serena, anche indecifrabile a volte. L'aveva guardata dopo… l'evento del pomeriggio. Non aveva cambiato espressione. Come faceva ad essere sempre così serena?
Era una bambola, certo. Eppure invidiava quel suo non farsi toccare dagli eventi. Invidiava i suoi capelli biondi boccolosi, sempre in ordine, sempre della lunghezza giusta. E la sua pelle liscia, lattea, nessuna imperfezione, nessun errore, niente.
Perfetta.
Bellissima da vedere, non si sarebbe stancata mai di guardarla. Fece scivolare il dorso della mano sulle guance della bambola, sentendo la temperatura non calda ma mai sgradevole della porcellana. La luce della abat-jour colpiva la sua pelle di sbieco, facendole notare la sottile peluria sulla pelle.
"Che schifo" pensò della propria cute.
Il paragone con quella di Ada, immacolata e incorruttibile, la fece sentire sporca, immeritevole.
Avrebbe voluto essere perfetta come Ada.
Avrebbe voluto essere una bambola.
Essere finalmente giusta.
Essere di porcellana.
***
«Mirella la Cervella!»
Mirella non seppe dire se fosse stato quel commento, detto mentre Stefania e il gruppetto passava, che le fece male… o le risate mentre si giravano a guardarla di sottecchi. Non facevano nulla per nasconderlo, comunque.
Perché continuavano a chiamarla così? Glielo aveva detto che non le piaceva essere trattata da stupida, aveva tutti dieci! Eppure continuavano, perché? Solo perché non andava alle feste di classe… al pub non faceva tardi… e non aveva un ragazzo?
Perché loro, così vergognosamente imperfette invece ne avevano uno? Come facevano ad esserle così superiori se…
Sentì le sopracciglia premere contro la base del naso, come fossero diventate pesanti.
Si fermò nel corridoio, di fronte alla porta della classe, gli occhi aperti, le labbra appena aperte, la mano poggiata sulla maniglia.
"Che fai?! Non entrare!"
Strinse lo spallaccio dello zaino come a cercare un sostegno. Ritirò la mano dalla maniglia come se scottasse, e si diede un leggero schiaffetto sulla guancia.
Strinse le palpebre, sentendo le lacrime pizzicarle gli occhi.
"No, no!"
Voleva guardarsi intorno, ma restò immobilizzata, fissando la maniglia in ottone, leggermente consumata da generazioni di studenti.
Se qualcuno l'avesse vista adesso?
Se qualcuno la stava guardando che figura avrebbe fatto?
"Fa' che non mi noti nessuno, fa' che non mi noti nessuno, fa'…"
«MIRELLA!»
I/002
[Mirella]
Katia era nera in volto.
I capelli mossi di un giallo cinerino erano arruffati e le cadevano sugli occhi, la testa abbassata come a tirare una testata immaginaria, le labbra strette e piccole. La sua bassa statura e gli occhi grandi la facevano sembrare un cucciolo infastidito, ma Mirella sapeva che era davvero nervosa.
«Dove sei stata?!»
I messaggi.
***
Alla fine si era addormentata di fianco ad Ada, e quando si era svegliata aveva sentito dei passi in giro per casa. Che fosse la madre o il padre non era importante; Mirella saltò fuori dal letto come una molla, atterrando in punta di piedi per non farsi sentire. Non poteva far scoprire il fatto che Ada durante la notte non era stata ordinatamente al suo posto, una bambola di porcellana di valore!
Puntò il piede nudo verso la mensola dall'altra parte della stanza, e si fermò con Ada in braccio. Fare rumore non era sufficiente: siccome doveva dormire con la porta aperta c'era il rischio che la vedessero, e non era riuscita a capire da dove venissero i rumori. Trattenne il fiato, con un peso che le schiacciava il petto, e tese le orecchie.
Nel corridoio.
Aveva pochi secondi, e sapeva di aver sbagliato. Non poteva mettere tutto a posto.
Decise per il male minore.
Corse a occhi socchiusi verso la mensola e posò Ada in mezzo alle altre bambole, il suo posto d'onore. Non fece in tempo nemmeno ad abbassare le braccia che l'urlo la travolse.
«MIRELLA!»
Il gelo nel cuore.
«TI SEMBRA L'ORARIO DI GIOCARE CON LE BAMBOLE?!»
Aveva sbagliato di nuovo. Ancora. Sembrava che non fosse capace di farne una giusta.
«Devo andare a lavorare presto, ma stasera facciamo i conti! Per questo non studi mai, stai sempre a giocare con quelle cazzo di bambole! Ma te le butto tutte, hai capito? TE LE BUTTO!»
Mirella sgranò gli occhi. Le braccia si abbassavano lentamente, lo sguardo inchiodato al muro sotto la mensola.
«No…» mormorò, così flebilmente che non fu sicura di averlo fatto davvero.
Sentì la madre girarsi e andare via, urlando per i corridoi.
«Guarda che mi fa fare! Invece di farmi stare tranquilla, figlia snaturata! Con le bambole gioca!»
Mirella rimase in piedi in mezzo alla stanza, col capo chino, incapace di muoversi. La madre si stava vestendo, e lo faceva urlando.
«Invece di studiare come Stefania, gioca, lei! Che vergogna! Ma stasera facciamo i conti! I conti facciamo, ti faccio passare la voglia di giocare! Invece di fare la brava figlia come Stefania!»
Come poteva aver sbagliato così?!
Come poteva essersi addormentata con Ada sul letto…?! Avrebbe voluto strapparsi i capelli per aver commesso un errore così madornale.
«MA CHE È 'STO CASINO?!»
Suo padre. Voce alta, profonda, cavernosa. Sentì un tremito lungo le spalle, così violento e improvviso da scuoterle il capo.
«MIRELLA!» urlò ancora. «CHE HAI FATTO CHE TUA MADRE SI È INCAZZATA?!»
«Che ha fatto?!» rispose la madre, apparendo sulla porta e guardandola di sbieco, sembrava la testa di un demone che sbucava da un tailleur grigio elegante. «Avanti, chiediglielo! Chiedile che si mette a fare di prima mattina! 'Sta sfaticata!»
«STASERA FACCIAMO I CONTI!»
Passò un tempo indefinito. La madre uscì, passando altre volte davanti alla porta. Il padre le aveva urlato di vestirsi, cosa che aveva fatto automaticamente, come un robot. Non sapeva nemmeno esattamente cosa aveva addosso, ma si era sistemata a dovere, come se il suo corpo fosse mosso da qualcun altro. Come se fosse lei una bambola.
Il padre l'aveva accompagnata a scuola, senza perdere un solo secondo del viaggio per ricordarle quanto fosse sbagliata, quanto aveva esagerato e quanto doveva smetterla di comportarsi così male. E Mirella avrebbe voluto scappare, ma era intrappolata nello stretto abitacolo dell'auto, dove le urla basse, vibranti, venivano amplificate e le squarciavano l'animo.
Cercò mentalmente di trovare una ragione a quello che stava succedendo. La colpa. E la trovò. Perché il suo corpo di merda non le aveva ubbidito? Perché si era addormentato senza il suo permesso?!
Quantomeno era riuscita a posare Ada.
Non era di alcuna consolazione, ma fu almeno un minimo sollevata di essere riuscita ad andare verso il male minore.
Almeno, fino a sera.
***
E così si era dimenticata di rispondere ai messaggi di Katia.
«Scusa, era che…» Sentì quasi un dolore al collo quando scoprì di non riuscire a sorridere, come se le labbra si fossero pietrificate e sforzare i muscoli del sorriso le faceva male. Allora bloccò la testa a metà del movimento, per non voltarsi verso di lei.
Dopo un momento le labbra ripresero a funzionare.
«Ma stai bene, Mirella?»
«Sì, certo» rispose lei, sorridendo. «C'è stata una festa ieri sera, scusami.»
«Mi hai fatto preoccupare!»
«E perché?»
«Ultimamente sei strana… più strana.»
Ma come se n'era accorta?! Non era possibile!
«Ma no, che dici?»
Un sorriso dolce, rassicurante. Eppure Katia storse le labbra quando lo vide.
«Entriamo?»
«Sì… ne parliamo dopo.»
Quando la porta dell'aula si era ormai già aperta, Mirella si rese conto di aver agito automaticamente, visto che poco prima non era nemmeno riuscita a farlo.
"Sei una bambola."
Lo pensò di se stessa come un'offesa. Quello doveva essere.
Eppure il pensiero non le dispiaceva…
«Ehi, Cervella» la salutò Fabrizio, il biondo. Sì, insomma… quello bello. Era seduto al primo banco vicino alla porta, ed era impossibile non passargli vicino.
«Ciao Fabrizio» rispose lei, cordiale e scandendo le parole.
«Ma la smetti? Cretino!» lo confrontò Katia, allungandosi verso di lui con le mani sui fianchi.
«Woff woff!» esclamò lui.
«Fate silenzio!» disse, infastidita, la professoressa Episcopo.
Katia la guardò, spalancando i grandi occhi.
«Mi scusi, professoressa.» Si girò verso Fabrizio. «Co-glio-ne» mimò con le labbra, al che lui rimase perplesso, ma poi le mandò un air kiss.
Si sedettero, ed iniziò una lunga, tediosa giornata di scuola. Mirella aggiunse anche l'essersi fatta riprendere dalla professoressa alla lista delle sconfitte di quella giornata. Più tardi però rispose bene all'interrogazione di storia con la professoressa Episcopo, il che la rincuorò un po'. E durante la terza ora fece un'interrogazione di matematica senza sbavature. Nemmeno un errore sui logaritmi. Tutto preciso sui teoremi sugli integrali. Ma tutto fu rovinato da Stefania e il suo sussurrato "Brava, Cervella!"…
***
«Che hai?»
Mirella non era altissima, anzi, era più bassina della media. Ma anche così, Katia le appariva davvero minuscola. E con quei suoi occhi giganti nocciolati, sembrava davvero un cagnolino.
«Niente… niente! Ma perché?»
«Sei strana, e poi… quando ti muovi sembri un robot.»
L'area dietro la scuola era sempre deserta dopo che la campanella aveva terminato il suo canto sgraziato, e le due amiche spesso ci andavano per ripararsi dal mondo. Mirella doveva sempre aspettare il padre mezz'ora, e Katia abitava lì vicino, quindi la aspettava.
«Non pensi di essere tu esagerata?»
«Ma… che dici?»
«Non stai mai al tuo posto, rispondi alle persone, ti muovi sempre…!»
«Mirella, ma…»
«Mirella, Mirella! Sempre Mirella!»
Finì in un boccone la barretta Fitness presa al distributore della scuola e si alzò, prendendo lo zaino con un unico movimento, per poi avviarsi verso l'ingresso principale.
«Mire…» Le parole di Katia le si spensero in gola, incerte, deluse.
Mirella si avviò verso la strada. Guai se non si fosse fatta trovare precisamente al solito punto, immobile.
«Aspetta…!» sentì Katia alle sue spalle. «Ma che ti ho fatto…?»
«Niente! Che mi hai fatto! Niente…»
Puntuale come un orologio svizzero, davanti a loro si fermò la Mercedes beige. Mirella posò la mano sulla maniglia. Deglutì. Poi il clack della portiera.
«Buongiorno, Katia» salutò il padre di Mirella.
«Ah… buongiorno, signor Marchetti.»
«Come stai?»
«Bene, grazie, e lei?»
«Tutto bene, si lavora.»
«Sì… anche noi…!» rise la piccola amica.
«Brava, ma non studiate troppo! Divertitevi ogni tanto.»
Katia sorrise; se avesse avuto una coda avrebbe scodinzolato. «Ma certo!»
«A presto.»
«Arrivederci signor Marchetti! Ciao M… ciao.»
«Ciao Katia.»
Il clunk della portiera.
«Perché non eri ad aspettarmi? Non ti ho vista dall'inizio della strada.»
La prigione era chiusa.
«Scusa papà, mi ero fermata a parlare con Katia, e…»
«La vuoi far diventare come te?»
Mirella deglutì di nuovo.
«No…»
«Andiamo a casa. Parliamo là.»
I/003
[Distruzione]
Sei sbagliata.
Ti comporti male.
Non ne fai una giusta.
Perché non riesci a capire?
Non sei brava come gli altri.
Perché non frequenti altre persone?
Pensi solo alle bambole, mai alle cose serie.
Non studi abbastanza.
Non pensi al futuro.
Non ci vuoi bene.
Sei egoista.
Mirella era stata seduta sul divano per oltre un'ora, mentre i genitori, ai due lati, le urlavano tutti i suoi errori. Rispondere o giustificarsi non era un'opzione. Non poté fare altro che ascoltare quelle parole taglienti che le affettavano il cuore, pezzo dopo pezzo. Per un istante si domandò come fosse possibile che funzionasse ancora.
Ogni tanto veniva il momento dello sfogo, quando doveva sottostare a quella tortura moderna. I suoi si dovevano sfogare, più del solito, e naturalmente c'era un unico obiettivo possibile per ciò.
Lei, Mirella.
Ora le cose dette le rimbalzavano nella testa, apparendo all'improvviso come scintille, come la pelle scottata sotto il sole che punge come punta a caso da una moltitudine di spilli.
Ora era in camera sua, seduta alla scrivania, osservando la parete. Aveva sistemato i libri, perché naturalmente poi le avevano detto di andare a studiare come se per lei fosse normale farlo dopo essersi sentita dire di essere sbagliata, storta, marcia.
La parete era uniforme, di un tenue color beige, spoglia. Mirella avrebbe voluto avere dei collage di foto come aveva visto in camera di Katia, o di altri compagni di scuola che aveva visitato. Ci aveva provato con una foto una volta, ma non aveva funzionato. Le urla si erano sentite probabilmente fin sulla luna. Perché si rovinava il muro. Perché perdeva tempo. Perché così si distraeva. Perché se fossero arrivati ospiti che figura si faceva. E così via.
Mirella affondò le unghie nelle guance, tirando giù le braccia, sufficientemente per sentire la pressione.
Perché non riusciva a farne una giusta?
Lo schermo dello smartphone si illuminò. Era Katia. Lesse il suo messaggio dall'anteprima.
hey, cm stai?
La ragazza restò a guardarlo, come se fosse la cosa più assurda del mondo. Non fece nulla, ed era cosciente di dover fare qualcosa, fosse stato anche tornare alla parete. Ma non riusciva a muoversi. A pensare. Sentiva il cuore battere.
Avrebbe voluto scappare. Avrebbe voluto prendere il telefono e mandare Katia a fanculo. Perché sì.
Che pensiero vergognoso.
Katia non aveva fatto niente. E non c'era niente di perfetto in quello che aveva pensato.
Se fosse stata perfetta finalmente avrebbe avuto considerazione da parte dei suoi genitori. Sarebbe stata rispettata. Ma se non riusciva ad esserlo nemmeno nei pensieri…
"Sei un fallimento, Mirella."
Fece per allungare la mano sul cellulare, ma si bloccò. Sentiva la porta sempre aperta alle sue spalle come una enorme telecamera. Non era successo di rado che sua madre si era messa a guardare di nascosto cosa stesse facendo, per poi urlare «MIRELLA!» al minimo errore.
Minimo errore.
Come aggiustarsi i capelli. Perdere tempo rispondendo ad un messaggio. O sbadigliare.
La perfezione non contempla errori; fanne solo uno, e l'hai persa.
Non si mosse, la mano a mezz'aria, immobile, aleggiava a metà tra il quaderno e il telefono. La guardò: sembrava… la mano di una bambola.
"È così che deve vedersi Ada" pensò.
Le venne da girarsi verso la mensola ma si bloccò, contrastando quello stupido stimolo involontario con uno volontario, tanto che sentì dolore.
Di nuovo.
Che stava facendo? E se ci fosse stata la madre dietro?
"Non muoverti."
Si rimise a studiare, ma non le importava nulla né di Churchill né di Roosevelt né di tutti gli altri. Era la quarta volta che rileggeva il paragrafo. Ma era come se ci fosse scritto in ogni riga che Mirella era sbagliata. Nient'altro. Cinquecento pagine di questo.
"Vorrei scappare da Katia."
Sorrise amaramente.
"Prima volevi mandarla a quel paese, adesso… certo se non ragioni, come puoi essere impeccabile?"
Poteva almeno rispondere al messaggio, però…
Le avrebbe detto che stava bene, ovviamente. Non poteva fare brutte figure con la gente. Allungò la mano lentamente, e…
«MIRELLA!»
Cuore. Batte. Cosa c'è fuori posto? Cuore. Batte batte. Tutto a posto, sembra, ma ne sei sicura? Cuore. Non sbagliare non sbagliare. /Cuore cuore cuore fermati scoppi così!
«NOI USCIAMO!»
Il mondo riprese a girare.
«Ah… sì!»
«TU, STUDIA!»
«Sì…»
Mirella si poggiò una mano sul torace come a voler contenere il suo muscolo cardiaco, respirando appena. Tornò a farlo regolarmente solo quando sentì la porta sbattere e l'auto avviarsi.
Si alzò dalla sedia, un po' gobba. La rimise al suo posto, ma non perfettamente parallela al bordo della scrivania. Si trascinò fino al letto, restando a guardarlo. Osservava le cuciture della trapunta azzurra che si incrociavano, e si separavano, e si incrociavano di nuovo, in una esibizione di geometrica perfezione.
Era libera, per un po'. Poteva fare quello che voleva, per un po'.
Guardò la sua collezione di bambole. Non erano poi molte, una decina, ma le sembrava di poter respirare quando le guardava. Alice, Michela, Giorgia… ma scelse di nuovo Ada. La issò via dalla mensola, e si sedette sul letto.
Guardò la bambola diritta nei suoi grandi occhi di porcellana. La sua espressione era serena, sempre serena, così tanto che ancora, si chiese come fosse possibile. Nessun difetto, nessuna sbavatura.
«Posso fare quello che voglio, adesso, Ada?»
Sbagliata.
Sei un errore.
Ti comporti male.
Vergognati, ci fai vergognare.
Stupida cretina sfaticata.
Sbagliata tutta.
«Sì, poss…» iniziò sorridendo, ma le si ruppero le parole in gola, quando le lacrime sgorgarono come se qualcuno la stesse spremendo da dentro.
Passò diversi minuti così, abbracciando Ada e bagnandosi del proprio dolore.
Fino al nulla.
***
Quando si risvegliò la stanza era scura, e solo il fascio giallino dei lampioni al di fuori filtrava dalla tenda socchiusa. Mirella si rimise a sedere con difficoltà, aveva tutti i muscoli indolenziti perché si era accasciata sul cuscino ed aveva dormito così, con le gambe penzoloni fuori dal letto.
Si stropicciò gli occhi, e per un attimo si soffermò verso il fascio giallino che attraversava tutta la stanza con taglio geometrico.
"Persino la luce passando da una tenda è perfetta. E tu no."
Aguzzò le orecchie.
Era ancora sola, ma i suoi sarebbero tornati presto. Doveva almeno rispondere a Katia. Si alzò, ma le gambe, rigide com'erano, non risposero bene, facendola ricadere sul letto.
Fu un attimo.
La consapevolezza del punto di non ritorno.
Il leggero crack.
Mirella spalancò le palpebre come fari di un camion nella notte, le sue iridi di un azzurro scuro completamente esposte, le braccia a mezz'aria, le dita avvicinate.
«No…!» esclamò a mezza voce, senz'aria.
Non si mosse, non poteva muoversi. Come se a un certo punto fosse riuscita a non muoversi a sufficienza, il tempo sarebbe tornato indietro. Ma sapeva che non era così.
Non era così.
"Perché sei così sbagliata?"
Una lacrima, voluminosa, carica, scese velocemente lungo la guancia, candendo poi sul seno.
«PERCHÉ SONO COSÌ…»
Niente più aria.
Solo altre lacrime.
Alcune caddero sulla schiena di Ada, che giaceva a terra, a faccia in giù.
***
Nero.
Come poteva essere così nero.
Un grosso buco nel volto, e non era rimasto nulla dell'occhio destro. Crepature si diffondevano sul resto della faccia, come se un mostro la stesse erodendo.
Ada aveva perso mezza faccia. Per colpa sua.
E il buco… ero nero come la notte. Nero come la vernice dello stesso colore ancora liquida, che sembra assorbire tutto. Nero come forse era l'altro mondo.
Mirella aveva raccolto tutti i pezzi, uno per uno, infilandosi persino sotto il letto a cercarli. Ne aveva fatto un mucchietto sulla scrivania, poggiati sul quaderno degli appunti di storia.
Come aveva potuto?
Aveva rotto Ada…
Come aveva potuto permetterlo?!
Ognuno era piccolo meno di un centimetro, e riluceva. Rilucevano ancora! Incredibile quanto la porcellana fosse perfetta anche dopo aver subìto…
Forse poteva reincollarli… forse poteva…
Ma non poteva. Erano troppi e troppo piccoli.
«Che cazzo hai fatto, puttana?»
«AH!»
Mirella trasalì, voltandosi di scatto con le mani intorno al petto. Scrutò la stanza.
Nulla.
«CHI C'È?!»
Restò in attesa. Aveva sentito una voce. C'era qualcuno in casa?!
Ma che stava succedendo?!
«Sono io, deficiente.»
La sentì di nuovo, stavolta definita, chiara. Sapeva da dove veniva, e non poteva crederci.
Non si mosse. Sapeva che non muoversi era la strategia migliore. Ma rimase a guardare il punto da cui proveniva la voce.
«E che cazzo mi guardi adesso, eh?»
Troppo.
Troppo.
«Togliti quella espressione idiota. Sì, mi hai fatto perdere un occhio. Rincoglionita.»
La boccuccia piccola, perfetta, lucida, si muoveva. Poco ed era… strano… era come se sfocasse leggermente…
Ma era lei. E stava… stava parlando.
Era Ada.
I/004
[A Pezzi]
Il profilo della bambola di porcellana curvava sui tratti somatici come l'opera di un maestro di calligrafia giapponese. La fronte non era né troppo indietro né troppo sporgente, la cui morbida linea continuava nel nasino appena incurvato, con la punta alla francese, affiancato da due guance immuni dalle ossa sporgenti o dalla pelle morbida, bianche, lucide, un dipinto della stanza all'incontrario. E poi la bocca stretta, carnosa ma non volgare, sempre dignitosamente chiusa. Il volto incorniciato dai capelli boccolosi, messi in piega e mai più disfattisi.
La bambola mosse il braccio, e poi si accarezzò una ciocca con le dita; i suoi movimenti erano lenti, composti, nessuna articolazione si muoveva più del necessario. Un esempio di eleganza, un ideale di compostezza. Sembrava quasi curiosa di osservarsi; rilasciò i capelli come se avesse liberato un uccellino, facendo rimbalzare appena il boccolo. Si osservò le maniche del vestito in stile ottocentesco, un po' barocco, largo, pomposo, di presenza ma non ingombrante, come si confà ad un nobile di nascita.
«Ma… come…»
La bambola si immobilizzò, un'ombra scura parve oscurarle il volto candido. La testa scattò verso Mirella, con un movimento meccanico, tanto simile a quello del gufo quando individua un intruso nella notte, quanto innaturale, inumano. E guardò verso Mirella. L'occhio sinistro era più chiaro del solito. Aveva perso la sfumatura azzurra, rassicurante quanto il colore del cielo limpido d'estate, assumendo una colorazione quasi lattiginosa attorno alla pupilla, puntata sulla base del naso di Mirella. E l'occhio destro, quello non c'era più. Al suo posto la voragine di due fauci dalle zanne di porcellana scheggiata, quasi fosse stato divorato.
Ada sorrise.
Scricchiolando, delle crepe nere le apparvero sulle guance che si sollevavano. Il sopracciglio superstite si abbatté sulla palpebra superiore, e la testa si abbassò, adombrandosi ancora di più.
«"Come"» sibilò Ada. «"Come" cosa? "Come" parlo?»
Mirella deglutì. Dov'era finito l'ordine delle cose?
Sapeva di avere gli occhi spalancati che non le donavano. Che erano così da sciattona. Ma non poteva fare altrimenti… e non le importava.
Ada stava parlando.
Di più, si muoveva.
Era… incredibile!
«Come al solito non capisci un cazzo.»
Fu come ricevere una secchiata d'acqua in faccia. Mirella se ne rese conto solo in quel momento: la sua bambola le aveva detto che era sbagliata. E non una volta.
«Ada…?»
«La domanda giusta non è "come". È "perché".»
«Ah… Pe…»
Mirella tossì, rendendosi conto di avere la gola secca. Si leccò le labbra e deglutì più volte, per poi tossire di nuovo. Ada scosse la testa, mentre l'occhio sinistro continuava a puntarla, i boccoli che ondeggiavano sul volto, alcuni finendo dentro e fuori il grosso buco nero sul volto.
«Non mi lamento io che ho la gola di porcellana. Che hai da grugnire così, scrofa?»
Quelle parole furono come una mano che tentava di strangolarla, e Mirella tossì di nuovo. Dette da quella voce così sottile, un soprano…
Ma dovette riprendersi.
Cosa stava succedendo?
«Perché?!» esclamò con voce rauca.
Ada tornò a girare la testa e mostrare solo il profilo sinistro, stavolta con un movimento più naturale. Chinò il capo, per un attimo sembrò prendere fiato.
«Sono anni ormai che mi hai… oh beh, "comprata" è la parola giusta, no?» Fece una pausa. «Tutte le volte che mi tenevi in braccio… che mi parlavi… e mi raccontavi di come stavi, di come andava a scuola, dei tuoi genitori… Io ti stavo a sentire, ti ho sempre ascoltata, sai? E poi… insomma, so quanto ci provi, e ancora e ancora.»
Mirella inspirò. «Ada…»
Ada girò appena la testa, e la guardò con l'occhio che ormai sembrava quasi del tutto bianco con la pupilla strettissima in mezzo.
«Fin dall'inizio sono sempre stata a sentire. Per questo adesso ho deciso di parlare.»
«Mi stavi… a sentire…!» Mirella sorrise, sentì un dotto lacrimale pizzicarle. «E ora… parli perché…»
Ada strinse la palpebra.
«Perché mi sono veramente rotta il cazzo di stare a sentire le tue stronzate.»
Divenne buio.
Oscurità del cuore.
Come poteva la sua amata bambola dirle ciò?
Dov'era la perfezione che rappresentava? Dov'era l'ideale assoluto di compostezza che aveva sempre incarnato?
«Io…»
«Fammi indovinare, adesso inizi a balbettare come al solito, e poi? Ah, sì, "un giorno sarò perfetta", "mi impegnerò più duramente", "perché sono così", e tutte quelle menate. Ascoltati, ma non ti detesti?»
Mirella guardò in giro. Osservò il letto rifatto con cura, la scrivania laccata con quaderni e libri ordinati per grandezza, l'armadio in legno massello ben richiuso e i vestiti riposti a dovere all'interno. Si guardò intorno come a cercare un appiglio. La sua bambola si era animata per dirle che era sbagliata. Anche lei.
Eppure il resto del mondo era uguale… cosa stava succedendo?
Fece un passo verso di Ada. Voleva prenderla in braccio. Quando si sentiva così, timorosa, confusa, ferita, andava da Ada e la cullava, ma adesso… era la sua stessa ancora di salvezza a farla sentire male.
Il piccolo crack la riportò con violenza alla coscienza del mondo esterno.
Ada le guardò il piede, puntando lo sguardo in basso senza muoversi.
«Quello era un pezzo del mio occhio, puttana.»
Mirella restò con le labbra semiaperte, incapace di muoversi, le sopracciglia come un libro aperto rovesciato. Alzò il piede con attenzione e si tolse la pattina, e camminando all'indietro finì per sedersi sul letto. Diversi pezzi di porcellana erano incastrati sotto la suola, in mezzo a qualche peletto e qualche pallina di polvere. Si rese conto di non aver mai guardato sotto le pattine… come poteva andare in giro per casa così?
Come aveva potuto non pensare di controllare una cosa così ovvia?
E ora lì sotto c'erano i pezzi della faccia di Ada…
Era davvero sbagliata…
«Che devo fare…?» sussurrò, mentre la voce le si rompeva in gola. «Cosa faccio adesso, Ada?»
La bambola si voltò di nuovo.
«Per quel che me ne frega, puoi mangiarteli.»
«Eh…?»
«Sì, mangiateli. Almeno per una volta avrai qualcosa di perfetto in corpo.»
«Perché mi fai questo?!» Una lacrima scese veloce, quasi come se un filo invisibile la trascinasse giù.
«Deficiente. Te l'ho appena detto.»
Mirella strinse le labbra.
"Chiudi la bocca. Non dire altro!"
Serrò i muscoli del viso, e quasi senza accorgersene si morse l'interno delle guance.
«Sai cosa? Mangiateli per davvero. Guarda quanti altri pezzi ci sono a terra. Mangiateli tutti.»
«Non… non sarebbe salutare.»
«"Salutare"? Ahahah! Ma sentila! "Salutare"! Ti farebbero un buco nello stomaco, altroché. Come tu lo hai fatto in faccia a me.»
«Un buco nello stomaco? Potrei…»
«Morirne, sì. Mangiali.»
La mano le perse forza, e la pattina le scivolò sulla gamba, finendo a terra senza fare rumore.
«Ada, non…»
«Ba ba ba ba.»
«Fammi… non puoi volermi male.»
«Male, dici?»
«Non puoi volermi morta!»
«MA CHE DICI!»
Ada si alzò in piedi; alta quanto lo zaino, a terra, eppure così imponente. A Mirella sembrò quasi che lo spazio intorno alla bambola si distorcesse, rendendola più grande, e la stanza più piccola, inclusa se stessa.
Così piccola.
«TUTTI TI VOGLIONO MORTA! Non te ne rendi conto?!»
Ada si fermò, furiosa, il petto stretto nel corsetto che si alzava e abbassava. Crepitando. Due solchi frastagliati si erano aperti ai lati della bocca, quasi fino alle orecchie, quando aveva urlato.
Le puntò un ditino candido addosso. «Tu…!»
Fu interrotta dal rumore della serratura principale che veniva aperta. Erano tornati.
Mirella saltò in piedi. Scandagliò l'intera stanza nel più breve tempo possibile.
Pezzi di porcellana sparpagliati sul pavimento.
Poteva raccoglierli in tempo?
«MIRELLA!»
Un piede nudo e una pattina rovesciata a terra.
Cercò di girarla ma la gamba non si muoveva bene. Non riusciva nemmeno ad abbassarsi, i muscoli erano bloccati.
«DOVE STAI?!»
La bambola più costosa senza un occhio.
Poteva girarla? Nasconderla?
«NON HAI PULITO?!»
Sì, aveva pulito, ma non era mai abbastanza… c'era qualche altro posto dove non aveva fatto un buon lavoro?
Poteva forse provare a…
«RISPONDI!»
Da dove doveva cominciare?!
«Che c'è, eh?»
Si fiondò sulla porcellana a terra. Era l'unica cosa che poteva realisticamente fare. Pezzi sotto l'armadio. Pezzi di fianco alla scrivania. Pezzi vicino al letto. Li raccoglieva furiosamente, scoordinata, spazzando a terra con le mani.
«Sei ridicola! Ahahah!» Ada si girava intorno crepitando dalle articolazioni, divertita.
Passi nel corridoio, pesanti, strusciati.
«OGGI TE LE DO! GUARDA 'STA MALEDUCATA CHE NON RISPONDE ALLA MADRE!»
Raccogli raccogli raccogli.
Dove li poteva nascondere?
«Te l'ho detto, mangiali!»
Era carponi a terra, senza una pattina, poggiata sui gomiti, con le mani piene di pezzi di porcellana.
«Dai, non volevi essere una bambola?»
Strinse i pugni cercando di farle scomparire, ma finendo solo con lo spingere quelle bianche puntine aguzze nella carne.
«Noi bambole mangiamo la porcellana per essere perfette, sai?»
Anche del sangue a terra adesso.
"Chudi gli occhi… non ti muovere… non fare niente…"
«Daaaai!»
«MIRELLA!»
«Dai, mangiale, liberiamo questa casa da un po' di spazzatura.»
La madre apparve sulla porta, controluce, un'ombra nera, deformata come il resto della stanza.
Mirella aprì gli occhi.
Non c'erano suoni.
Non c'era movimento.
Non aveva paura.
Quasi non percepiva più il corpo, si sentiva leggera.
Aveva solo una consapevolezza.
Lo aveva fatto.
Si era messa i pezzi di porcellana in bocca.
Li aveva masticati un po'.
Li aveva ingoiati.
E solo adesso se n'era resa conto.
E solo adesso sentiva il sapore metallico in bocca.
E solo adesso vedeva un grumo di saliva mista a sangue che le penzolava dalla bocca.
E solo adesso sentiva come un chicco d'uva pieno di spilli e lamette che le percorreva la gola.
«Brava.»
Tossì, sputò sangue.
«L'unica cosa buona che hai fatto in vita tua.»
La stanza iniziò a girare vorticosamente, le lamette che le mordevano le interiora.
«Ahahahah…!»
Vide Ada che la sovrastava, sorridendo. Anzi, per un momento, un attimo solo, le sembrò che ce ne fossero due.
Poi fu ingoiata dal nulla.
I/005
[Bip]
La sveglia, acuta, fastidiosa, ossessiva.
Continuava a strillare, da tanto.
E aveva una cadenza lenta, ripetitiva. Un suono acuto, un quarto di secondo. Poi nulla. Un altro suono. E silenzio. E ancora un altro, e poi una pace apparente, e di nuovo quel gridolino elettronico.
Non si fermava.
Solo un picchiettare ogni tanto, a ricordare che non c'è pace.
Bip.
Disturbava con piacere.
Bip.
Sadica.
Bip.
Bip.
Bip.
Mirella aprì gli occhi. Fu faticoso come tirare su a mani nude una saracinesca bloccata e arrugginita.
All'inizio fu come guardare dentro un fumo bianco, indistinto, mutevole.
Senza fretta la nebbia si posò sul fondo di una bottiglia immaginaria, ed iniziarono ad apparire dettagli. Un colore verde acqua si diffuse ovunque, partendo dal soffitto e scendendo verso le pareti.
Mirella si stupì ad accorgersi di essere stupita dal fatto che ci fossero delle pareti. Certo che c'erano delle pareti. Era stesa in un letto. Non poteva essere all'aperto, no? Che figura ci avrebbe fatto?
C'era una finestra alla sua sinistra, ma era nera. Dei neon annacquavano il verde acqua del soffitto. E l'odore… nessun odore. O meglio, c'era il profumo di una pulizia professionale.
Bip.
"Devo alzarmi, devo andare a scuola."
Bip.
"Dov'è la sveglia?"
Bip.
"Non è la solita che ho…"
Bip.
"A destra…"
Bip.
"Per favore, smettila, sono sveglia."
Bip.
"Sono sveglia!"
Bip.
"Smettila, ti prego, mi stai trapanando il cervello."
Bip.
"Per favore…"
Bip.
"Smettila…!"
Bip.
"SMETTILA!"
Bip.
Girò la testa lentamente. Era così irrigidita che le sembrò di scricchiolare.
Tornò alla coscienza in un attimo quando vide quella linea mutevole, verde, che baluginava lattiginosa.
Bip.
Che idiota.
Non poteva fermarsi. Quella non era la sveglia.
Era il suo cuore.
Chiuse un attimo gli occhi, e sentì una lacrima scorrere fino ad accarezzarle il collo.
Ricordò. I pezzi di porcellana.
Bianca. Pura.
Cercò di riaprire gli occhi, ma fu impossibile.
Nero. Sporco.
***
Fu riportata alla coscienza dal proprio cuore, ancora così disturbantemente monotono.
Voleva spegnere quella macchina che faceva bip.
Quella maledetta macchina che faceva bip.
"Controllati… che modo di parlare è questo…?"
Non ebbe voglia di aprire gli occhi. Percepiva le coperte, rigide, che quasi le graffiavano la pelle.
E poi delle voci.
«…assolutamente nulla.»
Una voce maschile, profonda. Veniva da lì vicino, ma allo stesso tempo sembrava risuonare da un luogo nascosto sottoterra.
«Ma come ha fatto?!»
Un'altra voce che risuonava dal profondo. Femminile. Sua madre.
«Non lo sappiamo. Non abbiamo trovato nulla, né nello stomaco né nell'intestino. Nessun oggetto che possa aver prodotto quelle lacerazioni all'esofago e alla parete gastrica.»
«Che ha combinato… che ha combinato!»
«Signora, l'importante è che si riprenderà. Naturalmente dovrà restare ancora in osservazione. Piuttosto… non avete trovato nulla a casa con cui avrebbe potuto procurarsi quelle ferite? Non so, un filo di ferro, o qualcosa del genere?»
«No! Perché dovremmo avere una cosa così a casa?»
«Ci sarebbe utile sapere come si è procurata quelle ferite.»
«Non è stata attenta, ecco come!»
«Signora… non sono cose che ci si fa perché non si è attenti…»
«Che vuol dire?»
«Sua figlia… è felice a casa?»
«Ma che domande, certo, come non potrebbe?»
«Ne è sicura?»
«Vuole saperlo meglio di me?»
«No, me ne guardo bene. Facciamo così, ne riparleremo quando sua figlia starà bene.»
«Ma certo. Eh, certo. E quando potrà tornare a scuola?»
«Eh…? Ma…! Non… non a breve. Ma adesso non è importante.»
"Non posso tornare…! Ma…! La scuola…! I voti…!"
Mirella spalancò gli occhi. Vide il soffitto ed i neon accesi. Che iniziarono a girare. Girare come una tromba d'aria. Come essere sulle montagne rosse. Fino a diventare linee indistinte. Fino a far venire la nausea. Si sentì cadere dal letto, assieme ad un conato di vomito. Cercò di aggrapparsi a qualcosa. Ma girava tutto troppo in fretta. Troppo veloce, troppo veloce.
La testa, appena sollevata, le ricadde sul cuscino. I capelli svolazzarono delicatamente, distendendosi sulla stoffa rigida.
Poi nulla.
***
«Mirella!»
Uccellini.
Sì, erano uccellini. E poi una sensazione di tepore sul volto.
Stavolta il soffitto aveva una tonalità più gradevole. Più morbida, più piena.
Era giorno, e un raggio di sole le accarezzava la guancia e parte del collo.
C'era ancora il bip dell'elettrocardiografo, ma sembrava avesse meno volume. Stavolta riuscì a distinguere più dettagli. La flebo appesa al supporto mobile, che le entrava nel braccio, le coperte azzurrine e le lenzuola bianche — che graffiavano ancora. Il comodino di fianco a lei con delle boccette e un sottile oggetto nero… il suo smartphone? Sembrava, ma non ne era sicura.
E poi due occhi, grandi, lucidi, da cucciolotto.
Mirella cercò di parlare, ma finì solo col tossire. Tanti piccoli fuochi le si accesero in gola, come se avesse ingoiato una piccola grattugia. Al confronto le coperte ore le sembravano di morbida seta. Parlò, lentamente, con dolore, ma lo fece. Voleva. Doveva.
«Scu…sa…»
Katia le si avvicinò ma si bloccò con le mani in aria, un po' incerta; stava per abbracciarla, ma si era dovuta trattenere. Mirella era convalescente; aveva la flebo e due tubicini nel naso. Non era il caso di stringerla, anche se in un abbraccio.
«Sshh, non ti sforzare» sussurò l'amica. Lentamente rimise le mani sulle ginocchia, sporgendosi in avanti dalla sedia in metallo su cui era seduta. «Ti senti bene? Dimmi solo sì o no.»
Mirella annuì, lentamente, strusciando la guancia sul cuscino.
«Che bell…» Katia non riuscì a dire l'ultima lettera, che due lacrimoni luccicosi le sgorgarono dagli occhi. Si rimise diritta, alzando la testa verso il soffitto, facendo vento con la mano e respirando rumorosamente. Poi tornò verso la paziente: «Scusa di che?»
«Ti sei… arrabbiata…?»
«No, Mirella, ma che dici! Nononono!»
La ragazza girò lentamente la testa verso la finestra. Si sentiva confusa e — peggio di tutto — percepiva chiaramente di non essere nelle condizioni di poter controllare le proprie emozioni. Un relitto. Ma poi… come ci era finita in ospedale?
Ada…
Ma era successo davvero?
O se lo era sognato?
«Ho parlato con il dottore, sai…?»
Mirella tornò a voltarsi stancamente verso l'amica. Non riusciva a controllarsi, ma questo la interessava.
«È tutto ok… È… Cioè, deve passare… È solo una questione di tempo e poi guarirai, ok?»
La paziente annuì di nuovo; alzò l'avambraccio, indicandosi la gola, e sorrise leggermente, anche se le fecero un po' male le guance.
«È solo una condizione dermatologica un po' strana… può essere stato lo stress, sai?»
Mirella restò con la mano a mezz'aria, sbattendo più volte le palpebre.
Condizione dermatologica?
Che c'entrava con la gola?
Aveva ingoiato dei pezzi di ceramica… o almeno era convinta che fosse andata così. E la grattugia nell'esofago lo confermava.
Katia si passò il dorso della mano sotto l'occhio, tirando su con il naso, con un sorriso amaro sul volto.
«Anche la gola, passerà presto.»
Ecco, appunto, la gola. Ma di quale condizione dermatologica stava cianciando…
La mano.
La sua mano.
Gli alberi fuori dalla finestra, li vedeva al contrario.
Era pallida.
No, non pallida. Era bianca.
Gli alberi, li vedeva sul dorso della propria mano.
Era lucida.
Sembrava la mano di una bambola.
Corrugando le sopracciglia, Mirella mosse le dita. Si muovevano eleganti, affusolate, anche se lente e stanche; quella era la sua mano.
Alzò le braccia, e per ognuna seguì tutto l'arto con lo sguardo. Erano bianche, lucide. Cerco di tirarsi su, e Katia le afferrò la spalla per aiutarla, ma poi si fece indietro.
«Non ti sforzare…» disse tirando di nuovo su con il naso.
Mirella alzò le coperte, e si tirò su la maglietta azzurrina dell'ospedale.
La sua pelle…
Era…
Sembrava…
Porcellana.
«Ma che succede?!» mormorò; doveva essere un urlo, ma uscì fuori come un rauco rantolo.
Bip bip.
Katia puntò la testa verso l'elettrocardiografo.
Bip bip bip.
Poi di nuovo verso Mirella.
Bipbip bipbip bipbip.
«Mirella, calmati… il dottore ha detto che passerà…»
Le mani della paziente, che ancora reggevano la canotta, iniziarono a tremare vistosamente, mentre il suo torace si alzava e abbassava a ritmo serrato.
Bipbipbipbipbipbip.
Katia si alzò in piedi, le mani a coprire la bocca, voltandosi avanti e indietro tra la sua amica e quel rumore.
«Calmati, per favore! Che faccio? Mirella!»
Si sentì mancare l'aria, e la stanza tornò a girare, finchè il vortice verde acqua non divenne nero.
Sentì la porta sbattere, delle voci confuse e lontane.
Che svanirono nel nulla.
Insieme alla stanza.
Di nuovo.
I/006
[Fragile]
Sei una bambola.
Quante volte aveva desiderato sentirsi dire quella esatta frase. Ci aveva fantasticato su tante di quelle volte…
Attori famosi o personaggi di serie TV, che l'avrebbero guardata come se fosse la ragazza più desiderabile del mondo, mentre nelle proprie fantasie Mirella interpretava una se stessa timida ma decisa, fragile ma forte, elegante ma dinamica.
E poi nei suoi sogni a occhi aperti aveva iniziato ad entrare Fabrizio, con i suoi capelli biondo scuro, gli occhi dal colore intenso del legno del cedro, la maglietta che scendeva diritta sopra un ventre piatto. E sarebbe corso da lei, dopo una nottata di turbamenti, in cui aveva capito quanto le sue battute l'avessero ferita. Una notte passata a fare flessioni e addominali, sudando e ansimando, per nettàre le proprie colpe. E l'avrebbe incontrata, finalmente, sul limitare del bosco a dieci minuti da casa sua, sul ponticello che faceva una gobbetta sopra il rivoletto d'acqua che serpeggiava in maniera imprevedibile attraverso la macchia.
Fabrizio l'avrebbe trovata appoggiata alla piccola balaustra dalla fattura un po' grezza, illuminata da sfoglie di luce dorata che filtravano irregolari tra il fogliame. L'avrebbe trovata mentre si abbracciava, ascoltando il ruscello alla ricerca di se stessa, vulnerabile e sensibile, ma combattiva fino alla morte contro qualunque ostacolo che le avesse sbarrato la strada.
E lui, dai capelli sconvolti da una nottata di espiazione, dal fiatone per aver corso fin là, e dallo stupore per averla vista lì, sola, desiderabile, bellissima, le avrebbe chiesto scusa, e le avrebbe ripetuto più volte di essere uno sciocco, perché si addormentava pensando ai suoi occhi, e si svegliava con l'immagine del suo sorriso che rischiarava il mattino.
Le avrebbe preso la mano, dolcemente ma con sicurezza, e vi avrebbe appoggiato le labbra, un piccolo bacino schioccato, dato con attenzione, come si tratta qualcosa che non si vuole rompere. Poi glielo avrebbe finalmente detto.
"Sei una bambola."
Si sarebbe accorto finalmente di quanto lei si fosse impegnata per modellare se stessa e avere classe, cultura, sensibilità. L'avrebbe stretta a sé come il proprio tesoro, permettendole di assaggiare le sue labbra mascoline dal colore delle ciliegie un po' prima di essere del tutto mature, e di percepire il proprio corpo fremente e muscoloso, poggiato sulle sue curve morbide, attratto da esse come una calamita, forte, protettivo, sicuro.
E il bacio sarebbe durato a lungo, assaporato, prima sfiorato, poi premuto, con calma, con gusto, adeguata ricompensa per aver tanto atteso, per aver tanto anelato. Poi fronte contro fronte, sorridendo, complici ma imbarazzati, e altri baci, le mani che si muovevano da sole, il cinguettìo degli uccellini tutt'intorno, le magliette appese a un ramo, il calore dei corpi, i respiri scambiati.
Che schifosa bestemmia.
Sei una bambola.
L'aveva desiderato così tanto, così tante volte.
E adesso suonava come una offesa oscena.
Adesso che era davvero una bambola.
Ora che la sua silenziosa confidente, Ada, l'aveva chiamata puttana.
In quel momento, davanti a quel dannato specchio di una toilette d'ospedale.
Hai una pelle di porcellana.
Continuavano a venirle in mente le frasi che avrebbe voluto sentirsi dire, e che tante volte aveva confidato ad Ada.
E ora era lei la bambola.
Nello specchio vedeva i suoi lineamenti, il suo viso, ma la pelle era lucida, immacolata. Anche al tatto, la texture liscia, di una quasi impercettibile frescura.
La sua pelle era diventata di porcellana.
Non si vedevano più pori né imperfezioni di alcun tipo. Da qualunque parte si voltasse, il profilo che vedeva era sempre costituito da una linea continua, morbida, uniforme.
Eppure era grottesca.
Quella strana malattia che tanto la faceva sembrava di ceramica intaccava solo lo strato superficiale della cute, e veniva via se grattato un po'. Se faceva espressioni più marcate si crepava intorno alla bocca, intorno agli occhi, nelle pieghe lungo il naso; si crepava intorno al collo, nel gomito, dietro al ginocchio, in mezzo alle dita… per non parlare delle condizioni in cui era ridotto l'inguine…
"Non sei una bambola…" mormorò a quella immonda creatura nello specchio. "Sei un mostro…"
I/007
[ACCESSO NEGATO]

Emilio incrociò le mani dietro la schiena, e tornò ad osservare il macello nella camera di test.
«Schedula un test tra SCP-D011-IT e una unità Centaurus.» disse continuando a guardare oltre il vetro rinforzato.
Sabelli si spinse gli occhiali verso l'alto con la punta dell'indice.
«Prego…?»
«Ha capito, Sabelli. Il test si svolgerà presso l'area di addestramento Vitt/22.»
«Dottor Rogazzi, le unità robotiche Centaurus sono unità di supporto pesanti d'assalto…»
«Quindi, dottor Sabelli?»
«Una singola pesa più di tre tonnellate, ed è equipaggiata con fucili al plasma… la ragazza finirà a pezzi!»
«Sono cosciente dei rischi.»
«Ma…»
«"Ma" cosa, Sabelli?!»
«Nulla, dottor Rogazzi. Devo fare un briefing con D011-IT?»
«No, non la avvertire.»
«Capisco. Per quando va schedulato il test?»
«Domani mattina.»
«Sissignore.»

«Sei tu SCP-032-IT?»
«Così mi chiamano qui. E tu, puella, non sei forse la favea del doctor Æmilius?»
«Non sono una schiava!»
«Ma ne indossi gli abiti.»
Mirella si guardò la tuta arancione da Classe D che dovevo indossare quando si trovava presso uno dei siti di contenimento.
«Be'… io…»
Dovette ammettere con se stessa che non aveva una argomentazione valida contro quella affermazione. Quante volte aveva deciso per se stessa da quando era stata acquisita dalla Fondazione?
«Non capisco una cosa, però.»
«Cosa?»
«Perché indossi quegli abiti se sei una Diva?»
«"Diva"… una dea?! Non sono certo una divinità!»
L'haruspex si voltò verso di lei, osservandola dalla fronte alla punta dei piedi. Rimase per qualche secondo in silenzio, pensivo. Alla fine parlò.
«E allora perché ne hai l'aspetto?»